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d’yn, n’yn, b’yt, spyrty, d’yl

(2002) cinque pezzi per voce femminile, maschile e nastro a 8 tracce [16’ 34”]

Prima esecuzione assoluta: Basilica di Santa Maria in Montesanto, Roma, 5 dicembre 2003

Voce femminile: Alessandra Vavasori

Voce maschile: Antonio Bortolami

Regia del suono: Roberto Doati

Commissione: Lanfranco Menga per Ensemble Oktoechos

Il ciclo “Sopra i monti degli aromi” è un percorso attraverso il Cantico dei Cantici tracciato da canti gregoriani, polifonie medievali e composizioni originali con elaborazioni elettroacustiche realizzato con l’Ensemble Oktoechos diretto da Lanfranco Menga, su progetto di Emanuele Pappalardo, Paolo Pachini, Lanfranco Menga e Roberto Doati.

Le linee guida per la composizione di queste cinque opere sono state indicate dai concetti di unione e di dualità: ille e illa del testo del Cantico, l’erotismo carnale e l’amore spirituale, l’umano e il sacro. La scrittura vocale si basa su poche altezze con molte ripetizioni, a indicare l’appartenenza alla terra, ma questa sorta di hochetus viene spezzato da note acutissime che indicano un’aspirazione, non sempre raggiunta, al cielo, alla spiritualità, oppure da brevi frasi parlate, articolazioni vocali corporali. Quest’ultime si integrano con le registrazioni fatte in momenti di vita quotidiana dei due cantanti (Alessandra Vavasori e Antonio Bortolami), così che ognuno degli interpreti si manifesti attraverso la spiritualità (il canto) e la corporeità (il parlato). La parte elettronica realizza idealmente il concetto di unione avvalendosi della tecnica di convoluzione sottolineando la fisicità della voce, registrata molto da vicino, e la sua evanescenza negli spazi riverberanti di una chiesa: le relazioni di frequenza fra le parziali di una voce (o un coro) maschile sono modellate dall’inviluppo spettrale di un coro (o una voce) femminile. Tutti i materiali vocali utilizzati provengono da interpretazioni dell’Ensemble Oktoechos di opere del passato su testi del Cantico: d’yn e n’yn sono convoluzioni fra esecuzioni maschili e femminili delle antifone “Jam hiems” e “Veni electa mea”;b’yt, per voce femminile ed elettronica, è un’elaborazione da un frammento della Sequenza “O ecclesia” di Hildegard von Bingen. Illa abbandona il suo letto ed esce nella notte a cercare l’amato; spyrty è il duetto dell’amore ed è basato su “Tota pulchra es, anima mea” di Heinrich Isaac: spyrty I per sola elettronica, spyrty II per voci maschile e femminile ed elettronica. Non è proprio un canto di unione, è piuttosto un muoversi fianco a fianco, in parallelo, anche se il primato della donna nel testo si rispecchia nella distribuzione delle parti vocali. La scrittura vocale è la trascrizione delle risonanze che si creano con la convoluzione di diverse parti del mottetto, mentre la parte elettronica alterna lunghe risonanze a vivaci sequenze di grani vocali; d’yl, per voce maschile ed elettronica sulla Sequenza “In multo desiderio” di Hildegard von Bingen, rappresenta l’attesa. Ille invita l’amata a svelargli il suo volto e a fare udire la sua voce. È una proposta di intimità, resa con il “contrappunto” delle loro voci registrate che manifestano gioia, sorpresa, entusiasmo, sospiri erotici.

Testi

b’yt

In lectulo meo per noctes
quaesivi quem diligit anima mea
quaesivi illum et non inveni.

Expoliavi me tunica mea, quomodo induar illa?
lavi pedes meos, quomodo inquinabo illos?

Sul mio letto, lungo la notte,
ho cercato l’amore dell’anima mia,
l’ho cercato e non l’ho trovato.

Mi sono già levata la tunica, come indossarla di nuovo?
Mi sono lavata i piedi, come potrei sporcarmeli di nuovo?

spyrty II

Ille Ecce tu pulchra es amica mea
ecce tu pulchra, oculi tui columbarum.

Illa Ecce tu pulcher es dilecte mi et decorus,
lectulus noster floridus

tigna domorum nostrarum cedrina
laquearia nostra cypressina.

Lui Quanto sei incantevole mia amata,
quanto sei incantevole!
I tuoi occhi sono colombe.

Lei Quanto sei incantevole mio amato, quanto sei affascinante!
Il nostro letto è lussureggiante:

pareti della nostra casa sono i cedri,
nostro soffitto i cipressi.

d’yl

Surge amica mea speciosa mea et veni,
columba mea in foraminibus petrae
in caverna maceriae.
Ostende mihi faciem tuam
sonet vox tua in auribus meis
vox enim tua dulcis et facies tua speciosa.

Alzati, mia amata, mia bella e vieni via,
o mia colomba che ti annidi nelle fenditure della roccia, negli anfratti dei dirupi.
Fammi vedere il tuo viso,
fammi sentire la tua voce
perché la tua voce è soave e il tuo viso affascinante.

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L’apparizione di tre rughe

(2001-2004) versione per chitarra, live electronics e sistema interattivo EyesWeb [25’]

Prima esecuzione assoluta: Hochschule der Künste, Berna, maggio 2005

Chitarra: Elena Casoli

Regia del suono e EyesWeb: Roberto Doati.

Realizzata con una borsa della Rockefeller Foundation

Questo progetto nasce da un’esplicita richiesta della grande virtuosa di chitarre Elena Casoli. Per anni ci siamo vicendevolmente studiati, seguiti nel nostro lavoro e finalmente nell’ottobre del 1998, durante una tournée in Argentina, abbiamo deciso di lavorare insieme. L’idea era di realizzare una serie di brevi pezzi da eseguire separatamente, ma legati fra loro come fossero un’unica opera. Due le versioni prodotte, indipendenti o meno a seconda del programma scelto: una esclusivamente elletroacustica (riproducibile quindi anche tramite CD) che contiene trasformazioni di materiali chitarristici registrati dalle chitarre di Elena Casoli, e una che si può affiancare all’elettroacustica, che prevede l’esecuzione di Elena Casoli dal vivo.

La facilità con cui Elena Casoli nei suoi concerti passa dalla chitarra acustica a 6 corde (pizzicata o percossa) alla chitarra elettrica, la chitarra a 10 corde, o addirittura all’arciliuto a 27 corde e la vastità del suo repertorio (da Gesualdo ai compositori contemporanei che per lei hanno scritto numerose opere, passando per Berio, Boulez, Maderna, Scelsi), mi hanno suggerito i materiali con cui lavorare. Sono i suoni, le articolazioni di sei diversi stili: blues, barocco, flamenco, jazz, repertorio sudamericano, rock. Ma anche i suoni di diversi strumenti: chitarra classica, arciliuto, chitarra a 10 corde, chitarra elettrica, tutte suonate con varie modalità (bottle neck, percossa, “strappata”, rasgueado, ecc.). Questi materiali sono stati sottoposti a classi di trasformazione digitale (dilatazione e compressione temporale, filtraggio, trasposizione, distribuzione nello spazio, ecc.) il cui risultato costituisce il contenuto della versione elettroacustica. La versione “live” scaturisce dalla trascrizione, in notazione convenzionale per chitarra, delle stesse elaborazioni elettroniche, quasi a creare l’ombra viva di una realtà virtuale e statica (si veda nel dettaglio al paragrafo “Interazione gestuale”). L’obiettivo è quello di evocare in certi momenti gli stili scelti e in altri negarli, rendendo così ambigua la riconoscibilità linguistica.

Per descrivere le scelte formali di questo lavoro, piuttosto di una descrizione verbale che risulterebbe angusta e poco chiara, penso sia preferibile fornire una rappresentazione grafica.

Versione elettroacustica (da eseguire “intrecciata” con opere dal vivo di altri autori)

Versione elettroacustica + chitarra dal vivo

Ogni parte della versione elettroacustica (A, B, C, D, E) è organizzata formalmente in modo che la densità della polifonia di stili e tecniche sia inversamente proporzionale alla durata di ogni singola parte. Ogni parte dal vivo (a, b, c, d, e) si concentra invece su un singolo stile o tecnica.

Un aspetto rilevante del lavoro, riguarda il controllo della parte di live electronics per mezzo del sistema interattivo denominato EyesWeb. Realizzato presso il  Laboratorio di Informatica Musicale del DIST – Università di Genova, EyesWeb è un software dotato di ingressi e uscite audio, video, MIDI e OSC. Nella versione live di L’apparizione di tre rughe i movimenti delle dita dipinte della mano sinistra di Elena Casoli sono seguiti da EyesWeb come tracce di colore, quindi trasformati in segnale MIDI per controllare diverse patch di Max/MSP che si occupano delle trasformazioni del suono della chitarra. I risultati, in termini di articolazione, sono notevolmente più “naturali” rispetto a un uso di controller esterni come pulsanti, slider o manopole, dal momento che seguono un imprevedibile, ma allo stesso tempo progettato, percorso quale quello dei gesti dell’interprete che deve eseguire una parte scritta. Questo fatto era già stato da me precedentemente verificato con il lavoro Allegoria dell’opinione verbale (2000), una piece di teatro musicale in cui il movimento delle labbra di un’attrice controllava i parametri per la risintesi della propria voce come illustrato nell’articolo di Francesco Giomi “Il computer nell’esecuzione musicale”, pubblicato in Le Scienzequaderni, n.121.

Estratti dalla registrazione della prima esecuzione assoluta.
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bastone armonico

(1999) per violino, bastoni della pioggia, elettronica e sistema interattivo [12’ 30”]

Prima esecuzione assoluta: Auditorium Montale del Teatro Carlo Felice, Genova, 11 maggio 1999

Violino: Marco Rogliano
Regia del suono: Roberto Doati, Alvise Vidolin

Sistema interattivo: Antonio Camurri, Matteo Ricchetti

Realizzata con una borsa della Bogliasco Foundation presso il Centro Ligure per le Arti e le Lettere

L’idea del lavoro, realizzato durante una residenza offertami dalla Fondazione Bogliasco (Centro Ligure per le Arti e le Lettere), nasce dall’ammirazione di certa pittura monocromatica statunitense: strati successivi di pittura (diversi i materiali, le tecniche) danno origine a una superficie che fa scomparire la materia e può venire percepita come scultura, oppure come composta di tonalità cangianti in funzione dell’incidenza della luce sul colore.

Mi colpiscono le piccole deflagrazioni percettive determinate da una forte astrazione.

Come spesso avviene per la realizzazione delle mie opere, anche per bastone armonico ho scelto materiali sonori che racchiudessero sia elementi concreti, “terrestri”, che elementi astratti, “celesti”. Ho cercato di realizzare un’idea di superficie monocromatica trattando i suoni impulsivi di un palo de lluvia (bastone da pioggia), strumento tipico della cultura india di tutto il Sud America. Questa monocromia granulare costituisce la totalità della parte elettronica, mentre il violino produce esclusivamente suoni armonici che, talvolta con originali tecniche d’arco, tendono a immergersi nella superficie elettronica. Un ulteriore strumento che concerne il processo di sviluppo unitario di “natura” e artificio, è la doppia equalizzazione del violino. Durante l’esecuzione la regia del suono può decidere liberamente quando e in quale misura mescolare violino naturale e violino “elettrico”.

Il sistema interattivo (ad libitum) mette in relazione i gesti del violinista con la parte elettronica. Con l’ausilio di microtelecamere (solo per la prima esecuzione assoluta, poi sostituite da un bracciale con sensore costruito da Matteo Richhetti) e microled vengono rilevati lo spostamento della mano sinistra lungo il manico e l’angolo di incidenza dell’arco sulle corde, parametri che determineranno durante l’esecuzione la distribuzione e lo spostamento del suono su otto altoparlanti. Inoltre la distribuzione del peso del corpo del violinista su due pedane analogiche sensibili alla pressione controllerà la dinamica.

Enzo Porta con due delle tre parti di cui è costituito il sistema (microled sul riccio e bracciale). Sullo sfondo, a terra, il convertitore ‘segnale analogico-MIDI’ di Matteo Ricchetti.

Il sistema è stato realizzato dal Laboratorio  di Informatica Musicale del DIST (Università di Genova) presso la Fondazione Teatro Carlo Felice, con la collaborazione di Antonio Camurri e Matteo Ricchetti. A loro e al mio maestro di sempre, Alvise Vidolin, che ha realizzato l’ambiente esecutivo il linguaggio MAX, va la mia gratitudine. Grazie a Xavier Serra per il suo SMS e a Davide Rocchesso per il suo BaBo, programmi che, insieme a Csound, ho utilizzato per le trasformazioni del bastone da pioggia. Formalmente l’opera segue 12 di 63 disegni generati dal computer di cui mi ha fatto dono l’amico Gianni Revello; una parte di essi è stata elaborata dal programma GraphSco di Riccardo Bianchini per l’estrazione di parametri musicali.

«Ogni musica che non dipinge nulla è un rumore» e se questa non è rumore lo devo alle pennellate precise e ai colori del violino di Marco Rogliano: senza la sua guida esperta non avrei potuto scriverla.

Sono infine debitore nei confronti di Franco Avicolli, poeta di terre astratte a cui debbo la scoperta dei diluvianti suoni e durevoli amicizie in terra argentina. A lui desidero dedicare bastone armonico.

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Felix Regula

(1997) I Felix Regula per clarinetto (e clarinetto basso, clarinetto contrabbasso ad libitum) e nastro [11’ 30”]

Prima esecuzione assoluta: Università di Liegi, luglio 1997

Clarinetti: Jean-Pierre Peuvion

Regia del suono: Roberto Doati

(1997) II Felix Regula per flauto (Do e Sol) e nastro [11’ 30”]

Prima esecuzione assoluta: “images sonores”, Ancienne Eglise Saint André, Liegi, 1998

Flauti: Catherine Binard

Regia del suono: Jean-Marc Sullon

(1997) III Felix Regula per violino e nastro [13’ 30”]

Prima esecuzione assoluta: “images sonores”, Ancienne Eglise Saint André, Liegi, 1999

Violino: Izumi Okubo

Regia del suono: Jean-Marc Sullon

V Felix Regula per violino (ossia viola), flauto, clarinetto, nastro a 8 tracce e live electronics  [15’ 30”]

Prima esecuzione assoluta: Festival Ars Musica, Bruxelles, marzo 2001

Viola: Miriam Götting

Flauti: Sascha Friedl

Clarinetti: Heinz Friedl

Regia del suono: Roberto Doati, Jean-Marc Sullon

Commissione dell’intera serie: Centre de Recherches et de Formation Musicales de Wallonie di Liegi

Felix Regula è un lavoro commissionato e realizzato presso il Centre de Recherches et Formation Musicales de Wallonie in Liegi. Quando ho ricevuto l’invito a realizzare un nuovo lavoro per strumenti ed elettronica, è stato naturale per me che vivo a Padova pensare a Johannes Ciconia (1340-1411); non solo perché il grande compositore e teorico proveniente da Liegi visse i suoi ultimi anni proprio a Padova, ma anche per il profondo legame fra musica e scienza che caratterizzò il suo lavoro e la sua vita. Il pensiero musicale che ho sviluppato nel corso di molti anni di utilizzo dell’informatica è fortemente improntato dalla nuova tecnologia. Per tecnologia intendo qui riferirmi non tanto allo strumento “macchina”, quanto a un insieme di nuovi concetti e procedimenti scientifici per investigare e trasformare la natura.

La “natura” che viene trasformata in Felix Regula è un virelai di Ciconia (Sus une fontayne) che rappresenta per me un archetipo dell’interesse che molti compositori, del passato come del presente, hanno per i giochi di specchi. Nelle cinque differenti versioni che ho realizzato (I: clarinetto e nastro, II:flauto e nastro, III: violino e nastro, IV: nastro solo, V: violino, flauto, clarinetto, nastro e live electronics), ho spezzato e ricostruito la forma del virelai di Ciconia con riflessioni non solo fra gli strumenti, ma anche con il mio specchio preferito: la tecnologia informatica.

Le trasformazioni elettroniche dei suoni strumentali sono quindi concepite come una sorta di doppio di ciascuno strumento, ma distribuite temporalmente in modo differente per ogni versione secondo un esprit de géométrie peculiare del lavoro di Ciconia. Anche gli strumenti producono una sorta di trattamento acustico. Le altezze del virelai vengono infatti emesse con modalità e articolazioni tipiche della musica contemporanea (slap, multifonici, tongue ram, ecc.).

In I Felix Regula tutti i suoni prodotti dallo strumento sono stati trasformati e distribuiti simmetricamente intorno al centro della parte per clarinetto, ma temporalmente compressi. Così che le prime misure suonate dallo strumento verranno udite trasformate elettronicamente solo dopo 40 secondi, mentre gli ultimi suoni elettronici si presentano parecchi secondi prima dei loro originali acustici. In II Felix Regula la trasformazione di ciascun suono di flauto viene “eseguita” simultaneamente alla parte strumentale, in una sorta di live electronics simulato. In III Felix Regula tutti i suoni prodotti dallo strumento sono stati trasformati e distribuiti simmetricamente intorno al centro della parte per violino, ma temporalmente dilatati. Così che le prime misure suonate dallo strumento verranno udite, trasformate elettronicamente, 50 secondi prima della loro reale esecuzione, mentre gli ultimi suoni elettronici si presentano circa 50 secondi dopo i loro originali acustici. IV Felix Regula è la versione a 8 piste che contiene: pista 1 (registrazione violino), pista 2 (registrazione flauto), pista 3 (registrazione clarinetto), piste 4-5 (trattamento elettronico violino), piste 6-7 (trattamento elettronico flauto), pista 8 (trattamento elettronico clarinetto). L’esecuzione del pezzo è completamente libera per quanto riguarda la dinamica delle differenti piste.

La relazione temporale fra strumenti e loro trattamento elettronico può essere rappresentata come segue:

V Felix Regula è la versione per violino (viola), flauti, clarinetti, nastro a 8 tracce e live electronics, e la relazione temporale fra strumenti ed elettronica può essere rappresentata come segue:

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Il domestico di Edgar

(1996-….) improvvisazione guidata per sassofono contralto, nastro e live electronics (ossia Octandre) [7’]

Prima esecuzione assoluta: XIV Colloquio di Informatica Musicale, Limonaia di Villa Strozzi, Firenze, 9 maggio 2003

Sassofono contralto: Gianpaolo Antongirolami

Regia del suono: Roberto Doati

Realizzata con una borsa della Bogliasco Foundation presso il Centro Ligure per le Arti e le Lettere

Se potessimo udire tutti i suoni esistenti subito impazziremmo.

Charlie Parker

Nel 1995 ricevetti una commissione per un’opera per strumento e computer dal compositore Claudio Ambrosini per il suo gruppo “Ex-Novo Ensemble”. L’opera doveva entrare a far parte, insieme ad altre scritte per l’occasione, di un repertorio particolare: arrangiamenti di musiche pop, o jazz e uso di improvvisazione con strumenti solisti ospiti. La mia scelta fu quella di lavorare con il sassofonista jazz Pietro Tonolo, per una composizione in cui elettronica e improvvisazione jazz fossero strettamente legate una all’altra, pur all’interno di un linguaggio musicale classico. La prima esecuzione era fissata l’anno successivo alle Sale Apollinee del Gran Teatro La Fenice di Venezia. Quando il teatro andò in fiamme, nel gennaio del 1996, il mio lavoro era appena cominciato, e l’amarezza e lo sconforto  in cui caddi per la perdita di un tale patrimonio, affettivo e culturale, furono tali che più volte nel corso degli anni ho ripreso in mano la composizione, portandola a termine solo nel 2002. Il protrarsi dei lavori di ricostruzione del teatro mi ha fatto comunque pensare a un work in progress.

È noto che negli ultimi anni di vita, Charlie Parker prese contatti con Edgar Varèse per ricevere lezioni di composizione. Il grande sassofonista jazz si stava infatti interessando sempre più alle esperienze dei compositori del primo ‘900. Il suo desiderio era tale da spingerlo a proporsi come domestico per Varèse qualora il pagamento delle lezioni dovesse essere stato ritenuto dal compositore non sufficiente. Alla fine Varèse accettò, ma al suo ritorno dopo un viaggio in Europa, Parker era morto.

L’idea di questo mio lavoro nasce dalla realizzazione di una parte elettronica che sia sonologicamente e formalmente organizzata come Octandre, uno dei capolavori di Varèse. Su questa base (o sulla stessa registrazione-esecuzione di Octandre), il sassofonista deve suonare seguendo una partitura che lo lasci libero di improvvisare, ma solo all’interno di schemi determinati; in pratica secondo quella che viene definita una improvvisazione guidata.

Prima dell’esecuzione la sola improvvisazione del sassofonista, che deve conoscere bene il linguaggio jazz e in particolare lo stile bebop, verrà registrata. Dopo l’esecuzione alcuni frammenti della sua improvvisazione vengono trasformati e sovrapposti alla precedente parte elettronica, così che quando un altro sassofonista è disponibile per una nuova interpretazione concertistica, improvviserà anche sull’improvvisazione (deformata) del primo sassofonista. La nuova improvvisazione viene a sua volta trasformata e sovrapposta alla precedente per costituire la base “elettronica” per una successiva interpretazione. Questo processo di ricostruzione e sovrapposizione di “rovine” continuerà fino a quando ci saranno nuovi sassofonisti interessati ad eseguire l’opera.

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Un’armatura di cotone

(1995-96) per flauto dolce contralto e live computer [9’ 48”]

Prima esecuzione assoluta: Teatro Municipale di Cagli, 1996

Flauto dolce: Antonello Politano

Regia del suono: Roberto Doati

L’opera è la trascrizione per flauto dolce (a cura di Antonio Politano) di Donna che si copre le orecchie per proteggersi dal rumore del tuono, scritta nel 1992 per flauto traverso su commissione di SpaziomusicaRicerca (Cagliari). Porta un diverso titolo perché i suoni dello strumento acustico svolgono un ruolo timbrico e formale importantissimo, anche per la parte elettronica.

Come la precedente versione, è concettualmente divisa in tre parti.

La prima ha un carattere “primordiale”. Attraverso modalità esecutive che privilegiano il rumore (slap, jet whistles, ruggiti, tongue ram), emergono le componenti base della macchina flauto (strumento + esecutore): il tubo sonoro, il soffio, il respiro, ecc. Il computer viene usato per modificare, senza snaturare, i suoni del flauto, in particolare con dilatazioni/compressioni temporali e trasposizioni di altezza.

Le due nature, suoni di flauto e suoni sintetici, evolvono nella seconda parte seguendo un percorso “culturale” che è loro proprio: il flauto esegue dapprima segmenti microtonali, poi trilli timbrici su più ampi intervalli melodici e infine suoni multifonici. I suoni sintetici, timbricamente sempre più complessi, evidenziano le differenze, soprattutto prosodiche, con lo strumento acustico.

Infine la terza parte (una forma aperta?) vede l’apparizione di nuove “nature” sorte dall’incontro dei due mondi sonori: l’acustico e l’elettronico. Con una sorta di Live Electronics simulato (tutti i suoni del computer sono trattamenti in tempo differito dei suoni che il flauto produce dal vivo) la composizione si conclude in una “atemporalità” articolata con grandi pause.

L’opera è stata realizzata su personal computer con il programma di sintesi e trattamento del suono Music 5 nelle versioni del C.S.C., Università di Padova (Alessandro Colavizza) e L.M.A., CNRS di Marsiglia (Daniel Arfib) e con il programma di trattamento Phase Vocoder, versione del D.I.S.T., Università di Genova (Paolo Musico e Paolo Neri). Tutti i suoni di flauto trattati sono eseguiti da Antonio Politano. L’amicizia e la stima che a lui mi legano sono responsabili della nascita di questa versione.

Nell’anno delle celebrazioni della “scoperta” dell’America, la donna del titolo della precedente versione era una donna india che si difendeva da quello che credeva essere solo l’annuncio di un temporale. Un’armatura di cotone è tutto ciò che i guerrieri aztechi hanno da indossare a difesa del proprio corpo dal tuono dei cannoni.

La tecnologia informatica è l’armatura di cotone di cui talvolta mi rivesto per resistere all’angoscia dello scrivere.

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Il libro del sale

(1994) per flauto dolce (contrabbasso e tenore) e live computer [8’]

Prima esecuzione assoluta: Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano, Chiesa di San Francesco, 1994

Flauti dolci: Antonello Politano

Regia del suono: Roberto Doati

Un libro chiuso: materia vergine.

Il libro si apre: lavorazione della materia.

Pagina 1

La materia, estratta dal mare, viene attirata da un buco nero.

Pagina 2

Il buco nero: la Storia. Fantasia, tripla, danza rinascimentale, lamento, mottetto. Collasso: solo il sale, liberato dalle acque, riesce a sfuggire.

Pagina 3

Il sale come cristallizzazione, solidificazione, stabilità, equilibrio delle proprietà delle sue componenti.

Il libro si chiude: la materia è fecondata.

Il sale, il cui sapore è indistruttibile, è anche simbolo dell’amicizia con Antonio Politano, raffinato alchimista di suoni pregiati.

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L’olio con cui si condiscono le parole

(1993-95) trittico per voce femminile, nastro a 8 tracce e live computer

Prima esecuzione assoluta: XLVI Festival Internazionale di Musica Contemporanea, Venezia, Teatro Fondamenta Nuove, 6 luglio 1995

Voce: Marianne Pousseur

Regia del suono: Roberto Doati, Alvise Vidolin

Commissione: La Biennale di Venezia

“Testa arcaica” [12’] per voce femminile e live computer

“Pigra giornata” [8’ 50”] per voce femminile e nastro ad libitum

“Forma di nebbia” [19’] per voce femminile e live computer

Pigra giornata. Voce: Marianne Pousseur.

L’olio con cui si condiscono le parole è un trittico per voce femminile, anzi per le voci di Marianne Pousseur, e live computer. Ogni sua parte è autonoma.

Denominatore comune dell’opera: ogni pezzo è centrato su un diverso archetipo, o meglio su una delle sue manifestazioni:

“Testa arcaica”: il madrigale

“Pigra giornata”: il canto jazz

“Forma di nebbia”: la vocalità sacra occidentale

Per chi come me si è sempre occupato di scoprire e produrre, grazie alle possibilità offerte dalla tecnologia informatica, “nuovi” suoni non per vestire strutture vecchie, ma con l’intento di costruire “nuove” sintassi, lavorare con uno strumento così carico di storia quale la voce, significava trovarsi davanti a un bivio. La prima strada era quella di cercare, tramite i mezzi informatici e una oramai consolidata sintassi musicale elettronica, di ridurre al minimo le immagini uditive del passato che inevitabilmente qualsiasi suono vocale induce. Ma per il grande spazio che il repertorio per voce ed elettronica occupa nella produzione musicale del nostro secolo era assai improbabile trovare una strada ancora inesplorata. Perché quindi non accettare questo continuo e-vocare linguaggi e stili del passato, anzi perché non pro-vocare queste immagini elevando al quadrato modelli e comportamenti antichi? L’idea non è quella di far rivivere arbitrariamente il passato, ma di far vivere degli archetipi cercando di scoprire perché e in quali modi essi siano significativi per me.

Pur ricercando sovente la fusione fra voce e computer, il carattere di queste due entità, di queste due dimensioni, come le chiamava Maderna, differisce per grado di artificialità: il computer produce prevalentemente suoni vocali non snaturati (sia nel timbro che nella sintassi), mentre la voce si articola secondo paradigmi prodotti in modo astratto con l’ausilio del computer. Punti di fusione vengono raggiunti allorquando si producono scambi di carattere (anche non simultanei): la voce segue modelli storici, il computer emerge in tutte le sue peculiarità “elettroniche”.

Nel campo dell’elaborazione numerica del suono esiste una tecnica detta sintesi incrociata che consiste nel costruire un suono dall’incrocio, appunto, fra due diversi suoni: di uno viene mantenuto il colore, lo spettro delle frequenze, dell’altro l’andamento dinamico. È così possibile costruire, ad esempio, una mareggiata che “parla”, o campane di “insetti”.

Lo strumento concettuale e costruttivo di questo lavoro, è un incrocio non di parti componenti la materia sonora, quanto di modelli di articolazione. La parte per computer si articola applicando tecniche di trattamento traslate da modelli compositivi della musica vocale/strumentale del passato (la loro trasportabilità rende evidente il loro carattere archetipico): dilatazione/compressione temporale, asincronia d’attacco, inversione temporale, fluttuazioni e trasposizioni di altezza e timbriche, accumulazione, moltiplicazione delle voci, distribuzione spaziale.

Viceversa la parte vocale dal vivo è prodotta avvalendosi di programmi di aiuto alla composizione (probabilmente animati anch’essi da “resti arcaici”) da me elaborati per la generazione pseudo-aleatoria di partiture grafiche.

“Testa arcaica”

La lettura della poesia Archaic head di Stephen Spender evoca i grandi poeti elisabettiani. È per questo motivo che il materiale di base per l’elaborazione elettronica è un madrigale a 5 voci di John Wilbye (1574-1638): “Weep, weep, mine eyes”. Sia il tipo (e il grado) di trasformazione dei suoni vocali registrati da Marianne Pousseur, che le articolazioni della voce dal vivo, sono determinati da una divisione semantica della poesia. Nella prima parte («If…then—») [0-4′] la voce dal vivo ruota intorno all’idea di perdita, successo, gioia, tristezza, mentre la voce (levoci) registrata viene filtrata elettronicamente agendo sullo spettro, ma anche linguisticamente (il canto a 5 voci parte con modalità contemporanee per mutar via via fisionomia). La percezione chiara di una vocalità elisabettiana compare nell’elaborazione elettronica, cui si contra-pone la voce dal vivo, della seconda parte («You…hand») [4′-7’20”]: rappresenta il desiderio del poeta che il passato possa “vedere” il presente. La voce “solista” si muove nell’ultima parte («You…read») [7’20”-12′] con un linguaggio più vicino ai giorni nostri, ma con l’intento di fondersi con un “madrigale” che, compresso nella sua dimensione verticale, tende a divenire sempre più canto monodico.

“Pigra giornata”

L’articolazione formale dell’opera discende da quella di una celebre canzone di Billie Holiday: “Don’t Explain”. Il posto che occupa ogni nota nella canzone viene sostituito da una citazione di canzoni di Billie Holiday e di brani del repertorio jazz di musicisti che la cantante considerava i suoi riferimenti umani e musicali: Bessie Smith, Louis Armstrong, Lester Young. La corrispondenza stabilita fra le altezze di “Don’t Explain” e i quattro musicisti è la seguente: Re4, Si4 e Do5 = Bessie Smith; Mi4, Fa4, Sol4 = Billie Holiday; La4 = Louis Armstrong (prima parte) e Lester Young (seconda parte). Il ruolo svolto dal computer è quello di trasformare i frammenti sonori scelti sia timbricamente che temporalmente per produrre una partitura esclusivamente vocale che talvolta ricorda la sua origine (intervalli tipici del blues, portamenti, figure ritmiche sincopate) esaltando i “tic”, le inflessioni tipiche dei quattro interpreti, talaltra emerge in tutta la sua astrazione. Così anche il testo è ottenuto mediante collage-trattamento dei vari testi delle canzoni usate. Il nastro (ad libitum) contiene un rullo di piatto sospeso che accompagna la voce per l’intera durata del brano.

“Forma di nebbia”

«Quando le forme non si distinguono ancora o quando le forme vecchie, che stanno scomparendo, non sono ancora sostituite da quelle nuove e nitide». La forma è quella, geometrica e forte, derivata dal metro della poesia utilizzata.

Questa struttura viene proposta 15 volte (una per ogni strofa), ogni volta sovrapponendosi alla precedente dilatata nel tempo. La nebbia è quella che provoca interruzioni nello svolgersi della narrazione poetica. Impedisce di ri-conoscere chiaramente la forma cui danno vita i 15 stili vocali (uno per ogni strofa, in ordine cronologico, dalla salmodia ebraica ai Gabrieli) usati per la composizione. La maggior parte dei modelli storici utilizzati riguarda la vocalità sacra occidentale, con numerosi riferimenti a quella veneziana. Ma vi sono altre allusioni a musiche, vocali e non, la cui scelta è stata determinata talvolta dal carattere e significato della poesia (ad esempio, il canto Gregoriano è rappresentato dalla sequenza “Victimae Paschali Laudes” perché la vicenda narrata da von Droste-Hülshoff si svolge durante la notte di Pasqua), talvolta da richiami a persone amiche (ad esempio, l’uso di una ballata di Ciconia, autore del ‘300 nato a Liegi e morto a Padova, allude al legame con Marianne Pousseur). La funzione svolta dal computer è fondamentalmente quella di moltiplicare la voce di Marianne Pousseur idealmente per quante volte la protagonista della poesia incrocia la propria immagine, fino a rendere quasi un incubo per la cantante, il continuo emergere della propria voce con particolari enormemente amplificati. Tra le maglie di questa polifonia vocale si insinua il trattamento di suoni e rumori legati ai diversi modelli storici.

Tra gli Ibo l’arte della conversazione è ritenuta molto importante, e i proverbi sono l’olio con cui si condiscono le parole. I proverbi sono resti arcaici, archetipi. L’olio con cui ho condito le parole di Spender, Holiday, von Droste-Hülshoff è il mio archetipo privilegiato: la tecnologia.

Da sempre ritengo che le dediche donino lustro più a chi le fa che a chi le riceve. Contravvengo ora a questo mio credo per riguardo a tre persone che hanno svolto un ruolo importante nella creazione di quest’opera.

L’olio del titolo è anche la pittura di Ettore Spalletti, cui è dedicata “Pigra giornata”. Il suo olio ha condito sovente le nostre conversazioni.

A Mario Messinis dedico “Forma di nebbia”, con tutta la mia riconoscenza per aver dato la possibilità a quel poco di olio che c’è nel mio lavoro, di venire a galla.

Ma né parole, né olio esisterebbero oggi senza l’angelica e sensuale voce di Marianne Pousseur, cui “Testa arcaica” è dedicata. È con la sua pazienza e professionalità che ho potuto costruire le immagini e le emozioni di questo lavoro che spero si manifestino all’ascolto.

Testi poetici

Archaic head

If, without losing this
Confidence of success,
I could go back to those days
And smile through that unhappiness
I wound about us then—
You would see what I now give
Whose intolerable demand
Then, was to touch your hand.
You would see what I have given:
This particular island
Where your archaic head
Is found, having been buried:
Hacked out with words, and read.

                                             Stephen Spender

(da A Heaven-Painted World, 1933-39)

Testa arcaica

Se, senza perdere questa
fiducia di successo,
potessi ritornare a quei giorni
per sorridere attraverso l’infelicità
che allora dipanavo intorno a noi—
vedresti quello che do ora
io che avevo la pretesa insopportabile
allora, di toccare la tua mano.
Quello che ho dato vedresti:
proprio quest’isola
dove la tua testa arcaica
che vi fu sepolta, si trova:
scalfita da parole, e
letta.

(da Poesie, a cura di Alfredo Rizzardi, Guanda, 1969)

Das Fräulein von Rodenschild

Sind denn so schwül die Nächt im April?
Oder ist so siedend jungfräulich Blut?
Sie schließt die Wimper, sie liegt so still
Und horcht des Herzens pochender Flut.
«O, will es denn nimmer und nimmer tagen?
O, will denn nicht endlich die Stunde schlagen?
Ich wache, und selbst der Seiger ruht!

Doch horch! es summt, eins, zwei und drei –
Noch immer fort? – sechs, sieben und acht,
Elf, zwölf – o Himmel, war das ein Schrei?
Doch nein, Gesang steigt über der Wacht,
Nun wird mirs klar, mit frommem Munde
Begrüßt das Hausgesinde die Stunde,
Anbrach die hochheilige Osternacht.»

Seitab das Fräulein die Kissen stößt
Und wie eine Hinde vom Lager setzt,
Sie hat des Mieders Schleifen gelöst,
Ins Häubchen drängt sie die Locken jetzt,
Dann leise das Fenster öffnend, leise,
Horcht sie der mählich schwellenden Weise,
Vom wimmernden Schrei der Eule durchsetzt.

O dunkel die Nacht! und schaurig der Wind!
Die Fahnen wirbeln am knarrenden Tor –
Da tritt aus der Halle das Hausgesind
Mit Blendlaternen und einzeln vor.
Der Pförtner dehnet sich, halb schon träumend,
Am Dochte zupfet der Jäger säumend,
Und wie ein Oger gähnet der Mohr.

Was ist?– wie das auseinander schnellt!
In Reihen ordnen die Männer sich,
Und eine Wacht vor die Dirnen stellt
Die graue Zofe sich ehrbarlich.
«Ward ich gesehn an des Vorhangs Lücke?
Doch nein, zum Balkone starren die Blicke,
Nun langsam wenden die Häupter sich.

O weh meine Augen! bin ich verrückt?
Was gleitet entlang das Treppengeländ?
Hab ich nicht so aus dem Spiegel geblickt?
Das sind meine Glieder– welch ein Geblend!
Nun hebt es die Hände, wie Zwirnes Flocken,
Das ist mein Strich über Stirn und Locken!
Weh, bin ich toll, oder nahet mein End?»

Das Fräulein erbleicht und wieder erglüht,
Das Fräulein wendet die Blicke nicht,
Und leise rührend die Stufen zieht
Am Steingelände das Nebelgesicht,
In seiner Rechten trägt es die Lampe,
Ihr Flämmchen zittert über der Rampe,
Verdämmernd, blau, wie ein Elfenlicht.

Nun schwebt es unter dem Sternendom,
Nachtwandlern gleich in Traumes Geleit,
Nun durch die Reihen zieht das Phantom,
Und jeder tritt einen Schritt zur Seit.–
Nun lautlos gleitets über die Schwelle–
Nun wieder drinnen erscheint die Helle,
Hinauf sich windend die Stiegen breit.

Das Fräulein hört das Gemurmel nicht,
Sieht nicht die Blicke, stier und verscheucht,
Fest folgt ihr Auge dem bläulichen Licht,
Wie dunstig über die Scheiben es streicht.
– Nun ists im Saale– nun im Archive–
Nun steht es still an der Nische Tiefe–
Nun matter, matter– ha! es erbleicht!

«Du sollst mir stehen! ich will dich fahn!»
Und wie ein Aal die beherzte Maid
Durch Nacht und Krümmen schlüpft ihre Bahn,
Hier droht ein Stoß, dort häkelt das Kleid,
Leis tritt sie, leise, o Geistersinne
Sind scharf! daß nicht das Gesicht entrinne!
Ja, mutig ist sie, bei meinem Eid!

Ein dunkler Rahmen, Archives Tor,
–Ha, Schloß und Riegel!– sie steht gebannt,
Sacht, sacht das Auge und dann das Ohr
Drückt zögernd sie an der Spalte Rand,
Tiefdunkel drinnen– doch einem Rauschen
Der Pergamente glaubt sie zu lauschen
Und einem Streichen entlang der Wand.

So niederkämpfend des Herzens Schlag,
Hält sie den Odem, sie lauscht, sie neigt–
Was dämmert ihr zur Seite gemach?
Ein Glühwurmleuchten– es schwillt, es steigt,
Und Arm an Arme, auf Schrittes Weite,
Lehnt das Gespenst an der Pforte Breite,
Gleich ihr zur Nachbarspalte gebeugt.

Sie fährt zurück– das Gebilde auch–
Dann tritt sie näher– so die Gestalt–
Nun stehen die beiden, Auge in Aug,
Und bohren sich an mit Vampires Gewalt.
Das gleiche Häubchen decket die Locken,
Das gleiche Linnen, wie Schnees Flocken,
Gleich ordnungslos um die Glieder wallt.

Langsam das Fräulein die Rechte streckt,
Und langsam, wie aus der Spiegelwand,
Sich Linie um Linie entgegen reckt
Mit Gleichem Rubine die gleiche Hand;
Nun rührt sichs– die Lebendige spüret,
Als ob ein Luftzug schneidend sie rühret,
Der Schemen dämmert– zerrinnt– entschwand.–

Und wo im Saale der Reihen fliegt,
Da siehst ein Mädchen du, schön und wild,
–Vor Jahren hats eine Weile gesiecht–
Das stets in den Handschuh die Rechte hüllt.
Man sagt, kalt sei sie wie Eises Flimmer,
Doch lustig die Maid, sie hieß ja immer:
«Das tolle Fräulein von Rodenschild».

                                             Annette von Droste-Hülshoff

(da Balladen, Rüschhaus, 1840-41)

La signorina di Rodenschild

Sono così afose le notti d’aprile,
o tanto ferve il sangue delle fanciulle?
Immobile, distesa, gli occhi chiusi,
bada al ritmo pulsante del suo cuore.
«Mai, oh, mai che spunti il giorno,
mai, oh, mai che suoni l’ora?
Io qui a vegliare, e perfino la pendola riposa.

Però, ecco che ronza, uno, due, tre,
ancora? se, sette, otto,
undici, dodici: cielo, un grido?
No, un canto s’alza su dalla guardiola,
capisco, con voce devota,
salutano i servi quest’ora,
comincia la santa notte di Pasqua».

Respinge i cuscini, si leva
come una cerva dalla giacitura,
s’è sciolta le stringhe dal busto,
spinge le ciocche dentro la cuffietta,
e poi, pian piano, schiude la finestra,
sta in ascolto dell’aria che s’effonde,
interrotta da pianti di civette.

Che notte buia! che vento pauroso!
Vorticano le bandiere al portone che stride,
dall’atrio, in basso, escono adesso i servi,
con le lanterne cieche, a uno a uno.
Si stiracchia il guardiano, già mezzo addormentato,
attende il cacciatore agli stoppini
pigramente, e il moro sbadiglia come un orco.

Cosa succede? Come si muovono svelti!
Gli uomini fanno schiera, davanti alle ragazze
si mette a protezione la vecchia governante.
«Che mi abbiano vista, nel varco tra le tende?
Ma no, gli sguardi puntano al balcone,
e ora, lentamente, si girano le teste.

O poveri occhi miei, sto diventando matta?
Cosa scivola là, via via lungo la scala,
non è che la conosco, nello specchio?
Son proprio le mie membra, che visione!
Ecco leva le mani, due fiocchi di lino,
e proprio al modo mio sfiora la fronte, i capelli.
Ahi che impazzisco, o forse la morte m’è
vicina!»

Si fa smorta, e poi, subito, rossa,
ma non smette un istante di guardare.
E intanto la forma di nebbia
che sfiora i gradini, vien su per la scala,
reggendo il lume: tremola la fiammella,
quasi si spegne, azzurra, come un fuoco fatuo.

Ora muove leggera sotto la volta di stelle
come i sonnambuli che guida il sogno,
ora penetra dentro quella schiera
e ciascuno si tira da parte,
ora, silente, valica la soglia,
ora riappare il lume
e gira su per l’ampia scalinata.

La signorina non ode il mormorio,
non bada ai loro sguardi spaventati,
e fissa solamente la lampada azzurrina
che traspare, infoschita, da finestra a finestra.
Adesso è nel salone – adesso nell’archivio –
adesso sta davanti al vuoto della nicchia –
sempre più tenue, pallida, ormai quasi smorzata.

«Voglio averti di fronte, dobbiamo misurarci!»
E temeraria infila la sua via,
come un’anguilla, per strettoie scure.
Qui rischia di scontrarsi, là il vestito si uncina,
cammina piano piano (hanno i fantasmi
acutissimi sensi), perché l’altra non sfugga.
Che coraggio, davvero non si può contestarlo!

Una cornice buia, la porta dell’archivio.
«Chiusa a chiave, sbarrata!» Resta fuori,
ed esitando prima l’occhio s’accosta
alla fessura, poi all’orecchio.
Tutto nero all’interno, ma un fruscio
di pergamene le sembra di sentire,
e come uno strisciare alla parete.

Il cuore le galoppa soffocando,
tiene il respiro, ascolta, si protende:
cos’è quel lume che le nasce accanto?
Il chiaro di una lucciola: cresce, s’alza su,
e braccio contro braccio, appena a un passo,
il fantasma s’appoggia alla porta,
chino sulla fessura come lei.

Arretra: anche l’immagine;
poi s’avanza: anche quella.
Adesso son di fronte, occhi negli occhi,
si sfidano con forza vampiresca.
Copron le chiome due cuffiette eguali,
e lini eguali avvolgono le membra,
come neve fioccante, egualmente scomposti.

Allunga ora la destra, lentamente,
la signorina; e lenta, quasi dentro uno specchio,
le viene incontro, nitida e precisa,
la stessa mano con lo stesso rubino.
Si muove: e sente, quella viva,
come se un’aria la tocchi tagliente.
Il fantasma vacilla, si dissolve, dilegua.

Quando vola la danza nel salone,
una giovane vedi, bella e inquieta
(ebbe una lunga malattia, in passato),
che tiene sempre la mano nel guanto.
Si dice sia come una lama di ghiaccio.
Eppure è gaia, la fanciulla, tutti,
si sa, la chiamano «la matta Rodenschild».

(traduzione di Giorgio Cusatelli, Rizzoli Editore, 1988)

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Donna che si copre le orecchie per proteggersi dal rumore del tuono

(1992) per flauto e live computer [CD Edipan PAN 3051] [9’ 46”]

Prima esecuzione assoluta: Festival Spaziomusica, Cagliari, dicembre 1992

Flauto: Riccardo Ghiani

Regia del suono: Roberto Doati

Commissione Spaziomusica

L’opera, scritta per Riccardo Ghiani su commissione di SpaziomusicaRicerca (Cagliari, 1992) è concettualmente divisa in tre parti. La prima ha un carattere “primordiale”. Attraverso modalità esecutive che privilegiano il rumore (slap, jet whistles, ruggiti, tongue ram), emergono le componenti base della macchina flauto (strumento + esecutore): il tubo sonoro, il soffio, il respiro, ecc. Il computer viene usato per modificare, senza snaturare, i suoni del flauto, in particolare con dilatazioni/compressioni temporali e trasposizioni di altezza.

Le due nature, suoni di flauto e suoni sintetici, evolvono nella seconda parte seguendo un percorso “culturale” che è loro proprio: il flauto esegue dapprima segmenti microtonali, poi trilli timbrici su più ampi intervalli melodici e infine suoni multifonici. I suoni sintetici, timbricamente sempre più complessi, evidenziano le differenze, soprattutto prosodiche, con lo strumento acustico.

Infine la terza parte (una forma aperta?) vede l’apparizione di nuove “nature” sorte dall’incontro dei due mondi sonori: l’acustico e l’elettronico. Con una sorta di Live Electronics simulato (tutti i suoni del computer sono trattamenti in tempo differito dei suoni che il flauto produce dal vivo) la composizione si conclude in una “atemporalità” articolata con grandi pause.

Nell’anno delle celebrazioni della “scoperta” dell’America, la donna del titolo è una donna india che si difende da quello che crede essere solo l’annuncio di un temporale: è invece lo spietato avanzare degli “dei bianchi” scandito dal tuono dei loro cannoni.

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Studi I-VIII

Studi I-IV (2020-2021) musica elettroacustica [6′ 57″]

Prima esecuzione assoluta: GOG – Teatro Akropolis, Genova, 11 maggio 2023

Studio V (2020-2021) musica elettroacustica [6’ 21”]

Prima esecuzione assoluta: GOG – Teatro Akropolis, Genova, 11 maggio 2023

Studio VI (2021) musica elettroacustica [25’ 49”]

Prima esecuzione assoluta: XXIII Colloquio di Informatica Musicale, Auditorium della Mole Vanvitelliana, Ancona, 26 ottobre 2022

Studio VII (2020-2021) musica elettroacustica [7’ 02″]

Prima esecuzione assoluta: REF Resilience Festival, Foggia, Teatro della Piccola Compagnia Impertinente, 26 settembre 2021

Studio VIII (2020-2021) musica elettroacustica [1’ 45”]

Prima esecuzione assoluta: GOG – Teatro Akropolis, Genova, 11 maggio 2023

La forza senza legge non ha forma,

ha solo un istinto e una durata

David Foster Wallace

Gli Studi I-VIII prendono ispirazione dai Klavierstücke I-VIII di Karlheinz Stockhausen. Questi lavori per pianoforte ruotano intorno all’esperienza elettronica degli Elektronische Studie I e II. Se i Klavierstücke I-IV (1952-53) rappresentano una sorta di schizzo dei pezzi elettronici che verranno, i Klavierstücke V-VIII (1954-55)rivelano una nuova attenzione al fattore temporale che nel contempo ‘dilata’ la forma secondo “criteri statistici” e consente all’autore di costruire timbri diversi (quasi in competizione con quelli elettronici su cui aveva lavorato per 18 mesi) che emergono dal costante uso di risonanze prodotte dalla pressione silenziosa dei tasti.

Nei miei Studi, tutti realizzati con CSound, ho voluto ricreare il suono elettronico di quegli anni: nella sua morfologia principale tanto simile a quella dei suoni di pianoforte (dovuta a tagli netti del nastro magnetico) e nel suo ‘colore’ ottenuto anche grazie alla convoluzione con la risposta all’impulso del riverbero a piastra EMT 140, quello usato da Stockhausen per Kontakte (ringrazio Martino Marini per la registrazione delle risposte all’impulso).

Per ogni studio, o gruppo di studi, ho adottato generazioni spettrali e comportamenti diversi nella ‘mala copiatura’ dei Klavierstücke, ma sempre concependo ogni suono come una momentform la cui durata e istante di inizio siano imprevedibili, ed entro cui talvolta è possibile sentire l’eco appena accennata di una composizione strumentale.

Studi I-IV (che devono essere eseguiti tutti insieme):  filtraggio risonante di brevi campioni di musica etnica distorti con varie funzioni, gesti e distribuzione temporale il più possibile simili a quelli dei Klavierstücke I-IV, echi di musica etnica.

Studio V: modelli fisici  applicati a funzioni audio prodotte da un insieme di Julia (implementato in CSound da Hans Mikelson, 1999), note generate con Cmask (Andre Bartetzki, 1997) a simulare in modo approssimato densità e dinamica del Klavierstück V, echi di musica classica.

Studio VI: ogni suono è il risultato della sovrapposizione di tre materiali ottenuti con la convoluzione con più o meno lunghe risonanze di pianoforte di: insiemi di Julia, onde quadre, attacchi di pianoforte. Le risonanze in realtà sono una deconvoluzione delle risonanze originali con gli attacchi di pianoforte selezionati come spettro generatore; il risultato è una sorta di RM. Tutti i suoni di pianoforte sono campionati dalla registrazione dei David Tudor della III versione del Klavierstück VI. Seguendo la tipologia di ‘suoni satelliti’ e suoni principali di Stockhausen, ho scritto un algoritmo di generazione seriale (basato sull’analisi della composizione di Stockhausen) sia dei parametri (serie di 6) che della organizzazione formale. Echi di musica vocale. Ringrazio Pascal Decroupet per avermi fornito i suoi fogli di lavoro per la preparazione dell’articolo “First sketches of reality. Fragmente zu Stockhausen (Klavierstück VI)”.

Studio VII: modelli fisici  applicati a funzioni audio prodotte da un insieme di Julia. La sua struttura deriva da un’analisi approssimativa degli eventi del Klavierstück VII individuando tre tipologie morfologiche: grappoli di note piano (arpeggi veloci generati da distribuzioni probabilistiche), suoni singoli lunghi, suoni con parziali ritardate (arpeggi lenti). Echi di musica di Stockhausen.

Studio VIII: modelli fisici  applicati a funzioni audio prodotte da un insieme di Julia modulate ad anello con funzioni a gradini aleatorie e trasposte con trasformata di Hilbert. La sua struttura deriva da un’analisi approssimativa degli eventi del Klavierstück VIII individuando tre tipologie morfologiche: grappoli di accordi, suoni singoli lunghi , suoni generati da distribuzioni probabilistiche  su più ‘voci’. Echi di free jazz.