(1993-95) trittico per voce femminile, nastro a 8 tracce e live computer
Prima esecuzione assoluta: XLVI Festival Internazionale di Musica Contemporanea, Venezia, Teatro Fondamenta Nuove, 6 luglio 1995
Voce: Marianne Pousseur
Regia del suono: Roberto Doati, Alvise Vidolin
Commissione: La Biennale di Venezia
“Testa arcaica” [12’] per voce femminile e live computer
“Pigra giornata” [8’ 50”] per voce femminile e nastro ad libitum
“Forma di nebbia” [19’] per voce femminile e live computer
L’olio con cui si condiscono le parole è un trittico per voce femminile, anzi per le voci di Marianne Pousseur, e live computer. Ogni sua parte è autonoma.
Denominatore comune dell’opera: ogni pezzo è centrato su un diverso archetipo, o meglio su una delle sue manifestazioni:
“Testa arcaica”: il madrigale
“Pigra giornata”: il canto jazz
“Forma di nebbia”: la vocalità sacra occidentale
Per chi come me si è sempre occupato di scoprire e produrre, grazie alle possibilità offerte dalla tecnologia informatica, “nuovi” suoni non per vestire strutture vecchie, ma con l’intento di costruire “nuove” sintassi, lavorare con uno strumento così carico di storia quale la voce, significava trovarsi davanti a un bivio. La prima strada era quella di cercare, tramite i mezzi informatici e una oramai consolidata sintassi musicale elettronica, di ridurre al minimo le immagini uditive del passato che inevitabilmente qualsiasi suono vocale induce. Ma per il grande spazio che il repertorio per voce ed elettronica occupa nella produzione musicale del nostro secolo era assai improbabile trovare una strada ancora inesplorata. Perché quindi non accettare questo continuo e-vocare linguaggi e stili del passato, anzi perché non pro-vocare queste immagini elevando al quadrato modelli e comportamenti antichi? L’idea non è quella di far rivivere arbitrariamente il passato, ma di far vivere degli archetipi cercando di scoprire perché e in quali modi essi siano significativi per me.
Pur ricercando sovente la fusione fra voce e computer, il carattere di queste due entità, di queste due dimensioni, come le chiamava Maderna, differisce per grado di artificialità: il computer produce prevalentemente suoni vocali non snaturati (sia nel timbro che nella sintassi), mentre la voce si articola secondo paradigmi prodotti in modo astratto con l’ausilio del computer. Punti di fusione vengono raggiunti allorquando si producono scambi di carattere (anche non simultanei): la voce segue modelli storici, il computer emerge in tutte le sue peculiarità “elettroniche”.
Nel campo dell’elaborazione numerica del suono esiste una tecnica detta sintesi incrociata che consiste nel costruire un suono dall’incrocio, appunto, fra due diversi suoni: di uno viene mantenuto il colore, lo spettro delle frequenze, dell’altro l’andamento dinamico. È così possibile costruire, ad esempio, una mareggiata che “parla”, o campane di “insetti”.
Lo strumento concettuale e costruttivo di questo lavoro, è un incrocio non di parti componenti la materia sonora, quanto di modelli di articolazione. La parte per computer si articola applicando tecniche di trattamento traslate da modelli compositivi della musica vocale/strumentale del passato (la loro trasportabilità rende evidente il loro carattere archetipico): dilatazione/compressione temporale, asincronia d’attacco, inversione temporale, fluttuazioni e trasposizioni di altezza e timbriche, accumulazione, moltiplicazione delle voci, distribuzione spaziale.
Viceversa la parte vocale dal vivo è prodotta avvalendosi di programmi di aiuto alla composizione (probabilmente animati anch’essi da “resti arcaici”) da me elaborati per la generazione pseudo-aleatoria di partiture grafiche.
“Testa arcaica”
La lettura della poesia Archaic head di Stephen Spender evoca i grandi poeti elisabettiani. È per questo motivo che il materiale di base per l’elaborazione elettronica è un madrigale a 5 voci di John Wilbye (1574-1638): “Weep, weep, mine eyes”. Sia il tipo (e il grado) di trasformazione dei suoni vocali registrati da Marianne Pousseur, che le articolazioni della voce dal vivo, sono determinati da una divisione semantica della poesia. Nella prima parte («If…then—») [0-4′] la voce dal vivo ruota intorno all’idea di perdita, successo, gioia, tristezza, mentre la voce (levoci) registrata viene filtrata elettronicamente agendo sullo spettro, ma anche linguisticamente (il canto a 5 voci parte con modalità contemporanee per mutar via via fisionomia). La percezione chiara di una vocalità elisabettiana compare nell’elaborazione elettronica, cui si contra-pone la voce dal vivo, della seconda parte («You…hand») [4′-7’20”]: rappresenta il desiderio del poeta che il passato possa “vedere” il presente. La voce “solista” si muove nell’ultima parte («You…read») [7’20”-12′] con un linguaggio più vicino ai giorni nostri, ma con l’intento di fondersi con un “madrigale” che, compresso nella sua dimensione verticale, tende a divenire sempre più canto monodico.
“Pigra giornata”
L’articolazione formale dell’opera discende da quella di una celebre canzone di Billie Holiday: “Don’t Explain”. Il posto che occupa ogni nota nella canzone viene sostituito da una citazione di canzoni di Billie Holiday e di brani del repertorio jazz di musicisti che la cantante considerava i suoi riferimenti umani e musicali: Bessie Smith, Louis Armstrong, Lester Young. La corrispondenza stabilita fra le altezze di “Don’t Explain” e i quattro musicisti è la seguente: Re4, Si4 e Do5 = Bessie Smith; Mi4, Fa4, Sol4 = Billie Holiday; La4 = Louis Armstrong (prima parte) e Lester Young (seconda parte). Il ruolo svolto dal computer è quello di trasformare i frammenti sonori scelti sia timbricamente che temporalmente per produrre una partitura esclusivamente vocale che talvolta ricorda la sua origine (intervalli tipici del blues, portamenti, figure ritmiche sincopate) esaltando i “tic”, le inflessioni tipiche dei quattro interpreti, talaltra emerge in tutta la sua astrazione. Così anche il testo è ottenuto mediante collage-trattamento dei vari testi delle canzoni usate. Il nastro (ad libitum) contiene un rullo di piatto sospeso che accompagna la voce per l’intera durata del brano.
“Forma di nebbia”
«Quando le forme non si distinguono ancora o quando le forme vecchie, che stanno scomparendo, non sono ancora sostituite da quelle nuove e nitide». La forma è quella, geometrica e forte, derivata dal metro della poesia utilizzata.
Questa struttura viene proposta 15 volte (una per ogni strofa), ogni volta sovrapponendosi alla precedente dilatata nel tempo. La nebbia è quella che provoca interruzioni nello svolgersi della narrazione poetica. Impedisce di ri-conoscere chiaramente la forma cui danno vita i 15 stili vocali (uno per ogni strofa, in ordine cronologico, dalla salmodia ebraica ai Gabrieli) usati per la composizione. La maggior parte dei modelli storici utilizzati riguarda la vocalità sacra occidentale, con numerosi riferimenti a quella veneziana. Ma vi sono altre allusioni a musiche, vocali e non, la cui scelta è stata determinata talvolta dal carattere e significato della poesia (ad esempio, il canto Gregoriano è rappresentato dalla sequenza “Victimae Paschali Laudes” perché la vicenda narrata da von Droste-Hülshoff si svolge durante la notte di Pasqua), talvolta da richiami a persone amiche (ad esempio, l’uso di una ballata di Ciconia, autore del ‘300 nato a Liegi e morto a Padova, allude al legame con Marianne Pousseur). La funzione svolta dal computer è fondamentalmente quella di moltiplicare la voce di Marianne Pousseur idealmente per quante volte la protagonista della poesia incrocia la propria immagine, fino a rendere quasi un incubo per la cantante, il continuo emergere della propria voce con particolari enormemente amplificati. Tra le maglie di questa polifonia vocale si insinua il trattamento di suoni e rumori legati ai diversi modelli storici.
Tra gli Ibo l’arte della conversazione è ritenuta molto importante, e i proverbi sono l’olio con cui si condiscono le parole. I proverbi sono resti arcaici, archetipi. L’olio con cui ho condito le parole di Spender, Holiday, von Droste-Hülshoff è il mio archetipo privilegiato: la tecnologia.
Da sempre ritengo che le dediche donino lustro più a chi le fa che a chi le riceve. Contravvengo ora a questo mio credo per riguardo a tre persone che hanno svolto un ruolo importante nella creazione di quest’opera.
L’olio del titolo è anche la pittura di Ettore Spalletti, cui è dedicata “Pigra giornata”. Il suo olio ha condito sovente le nostre conversazioni.
A Mario Messinis dedico “Forma di nebbia”, con tutta la mia riconoscenza per aver dato la possibilità a quel poco di olio che c’è nel mio lavoro, di venire a galla.
Ma né parole, né olio esisterebbero oggi senza l’angelica e sensuale voce di Marianne Pousseur, cui “Testa arcaica” è dedicata. È con la sua pazienza e professionalità che ho potuto costruire le immagini e le emozioni di questo lavoro che spero si manifestino all’ascolto.
Testi poetici
Archaic head
If, without losing this
Confidence of success,
I could go back to those days
And smile through that unhappiness
I wound about us then—
You would see what I now give
Whose intolerable demand
Then, was to touch your hand.
You would see what I have given:
This particular island
Where your archaic head
Is found, having been buried:
Hacked out with words, and read.
Stephen Spender
(da A Heaven-Painted World, 1933-39)
Testa arcaica
Se, senza perdere questa
fiducia di successo,
potessi ritornare a quei giorni
per sorridere attraverso l’infelicità
che allora dipanavo intorno a noi—
vedresti quello che do ora
io che avevo la pretesa insopportabile
allora, di toccare la tua mano.
Quello che ho dato vedresti:
proprio quest’isola
dove la tua testa arcaica
che vi fu sepolta, si trova:
scalfita da parole, e letta.
(da Poesie, a cura di Alfredo Rizzardi, Guanda, 1969)
Das Fräulein von Rodenschild
Sind denn so schwül die Nächt im April?
Oder ist so siedend jungfräulich Blut?
Sie schließt die Wimper, sie liegt so still
Und horcht des Herzens pochender Flut.
«O, will es denn nimmer und nimmer tagen?
O, will denn nicht endlich die Stunde schlagen?
Ich wache, und selbst der Seiger ruht!
Doch horch! es summt, eins, zwei und drei –
Noch immer fort? – sechs, sieben und acht,
Elf, zwölf – o Himmel, war das ein Schrei?
Doch nein, Gesang steigt über der Wacht,
Nun wird mirs klar, mit frommem Munde
Begrüßt das Hausgesinde die Stunde,
Anbrach die hochheilige Osternacht.»
Seitab das Fräulein die Kissen stößt
Und wie eine Hinde vom Lager setzt,
Sie hat des Mieders Schleifen gelöst,
Ins Häubchen drängt sie die Locken jetzt,
Dann leise das Fenster öffnend, leise,
Horcht sie der mählich schwellenden Weise,
Vom wimmernden Schrei der Eule durchsetzt.
O dunkel die Nacht! und schaurig der Wind!
Die Fahnen wirbeln am knarrenden Tor –
Da tritt aus der Halle das Hausgesind
Mit Blendlaternen und einzeln vor.
Der Pförtner dehnet sich, halb schon träumend,
Am Dochte zupfet der Jäger säumend,
Und wie ein Oger gähnet der Mohr.
Was ist?– wie das auseinander schnellt!
In Reihen ordnen die Männer sich,
Und eine Wacht vor die Dirnen stellt
Die graue Zofe sich ehrbarlich.
«Ward ich gesehn an des Vorhangs Lücke?
Doch nein, zum Balkone starren die Blicke,
Nun langsam wenden die Häupter sich.
O weh meine Augen! bin ich verrückt?
Was gleitet entlang das Treppengeländ?
Hab ich nicht so aus dem Spiegel geblickt?
Das sind meine Glieder– welch ein Geblend!
Nun hebt es die Hände, wie Zwirnes Flocken,
Das ist mein Strich über Stirn und Locken!
Weh, bin ich toll, oder nahet mein End?»
Das Fräulein erbleicht und wieder erglüht,
Das Fräulein wendet die Blicke nicht,
Und leise rührend die Stufen zieht
Am Steingelände das Nebelgesicht,
In seiner Rechten trägt es die Lampe,
Ihr Flämmchen zittert über der Rampe,
Verdämmernd, blau, wie ein Elfenlicht.
Nun schwebt es unter dem Sternendom,
Nachtwandlern gleich in Traumes Geleit,
Nun durch die Reihen zieht das Phantom,
Und jeder tritt einen Schritt zur Seit.–
Nun lautlos gleitets über die Schwelle–
Nun wieder drinnen erscheint die Helle,
Hinauf sich windend die Stiegen breit.
Das Fräulein hört das Gemurmel nicht,
Sieht nicht die Blicke, stier und verscheucht,
Fest folgt ihr Auge dem bläulichen Licht,
Wie dunstig über die Scheiben es streicht.
– Nun ists im Saale– nun im Archive–
Nun steht es still an der Nische Tiefe–
Nun matter, matter– ha! es erbleicht!
«Du sollst mir stehen! ich will dich fahn!»
Und wie ein Aal die beherzte Maid
Durch Nacht und Krümmen schlüpft ihre Bahn,
Hier droht ein Stoß, dort häkelt das Kleid,
Leis tritt sie, leise, o Geistersinne
Sind scharf! daß nicht das Gesicht entrinne!
Ja, mutig ist sie, bei meinem Eid!
Ein dunkler Rahmen, Archives Tor,
–Ha, Schloß und Riegel!– sie steht gebannt,
Sacht, sacht das Auge und dann das Ohr
Drückt zögernd sie an der Spalte Rand,
Tiefdunkel drinnen– doch einem Rauschen
Der Pergamente glaubt sie zu lauschen
Und einem Streichen entlang der Wand.
So niederkämpfend des Herzens Schlag,
Hält sie den Odem, sie lauscht, sie neigt–
Was dämmert ihr zur Seite gemach?
Ein Glühwurmleuchten– es schwillt, es steigt,
Und Arm an Arme, auf Schrittes Weite,
Lehnt das Gespenst an der Pforte Breite,
Gleich ihr zur Nachbarspalte gebeugt.
Sie fährt zurück– das Gebilde auch–
Dann tritt sie näher– so die Gestalt–
Nun stehen die beiden, Auge in Aug,
Und bohren sich an mit Vampires Gewalt.
Das gleiche Häubchen decket die Locken,
Das gleiche Linnen, wie Schnees Flocken,
Gleich ordnungslos um die Glieder wallt.
Langsam das Fräulein die Rechte streckt,
Und langsam, wie aus der Spiegelwand,
Sich Linie um Linie entgegen reckt
Mit Gleichem Rubine die gleiche Hand;
Nun rührt sichs– die Lebendige spüret,
Als ob ein Luftzug schneidend sie rühret,
Der Schemen dämmert– zerrinnt– entschwand.–
Und wo im Saale der Reihen fliegt,
Da siehst ein Mädchen du, schön und wild,
–Vor Jahren hats eine Weile gesiecht–
Das stets in den Handschuh die Rechte hüllt.
Man sagt, kalt sei sie wie Eises Flimmer,
Doch lustig die Maid, sie hieß ja immer:
«Das tolle Fräulein von Rodenschild».
Annette von Droste-Hülshoff
(da Balladen, Rüschhaus, 1840-41)
La signorina di Rodenschild
Sono così afose le notti d’aprile,
o tanto ferve il sangue delle fanciulle?
Immobile, distesa, gli occhi chiusi,
bada al ritmo pulsante del suo cuore.
«Mai, oh, mai che spunti il giorno,
mai, oh, mai che suoni l’ora?
Io qui a vegliare, e perfino la pendola riposa.
Però, ecco che ronza, uno, due, tre,
ancora? se, sette, otto,
undici, dodici: cielo, un grido?
No, un canto s’alza su dalla guardiola,
capisco, con voce devota,
salutano i servi quest’ora,
comincia la santa notte di Pasqua».
Respinge i cuscini, si leva
come una cerva dalla giacitura,
s’è sciolta le stringhe dal busto,
spinge le ciocche dentro la cuffietta,
e poi, pian piano, schiude la finestra,
sta in ascolto dell’aria che s’effonde,
interrotta da pianti di civette.
Che notte buia! che vento pauroso!
Vorticano le bandiere al portone che stride,
dall’atrio, in basso, escono adesso i servi,
con le lanterne cieche, a uno a uno.
Si stiracchia il guardiano, già mezzo addormentato,
attende il cacciatore agli stoppini
pigramente, e il moro sbadiglia come un orco.
Cosa succede? Come si muovono svelti!
Gli uomini fanno schiera, davanti alle ragazze
si mette a protezione la vecchia governante.
«Che mi abbiano vista, nel varco tra le tende?
Ma no, gli sguardi puntano al balcone,
e ora, lentamente, si girano le teste.
O poveri occhi miei, sto diventando matta?
Cosa scivola là, via via lungo la scala,
non è che la conosco, nello specchio?
Son proprio le mie membra, che visione!
Ecco leva le mani, due fiocchi di lino,
e proprio al modo mio sfiora la fronte, i capelli.
Ahi che impazzisco, o forse la morte m’è vicina!»
Si fa smorta, e poi, subito, rossa,
ma non smette un istante di guardare.
E intanto la forma di nebbia
che sfiora i gradini, vien su per la scala,
reggendo il lume: tremola la fiammella,
quasi si spegne, azzurra, come un fuoco fatuo.
Ora muove leggera sotto la volta di stelle
come i sonnambuli che guida il sogno,
ora penetra dentro quella schiera
e ciascuno si tira da parte,
ora, silente, valica la soglia,
ora riappare il lume
e gira su per l’ampia scalinata.
La signorina non ode il mormorio,
non bada ai loro sguardi spaventati,
e fissa solamente la lampada azzurrina
che traspare, infoschita, da finestra a finestra.
Adesso è nel salone – adesso nell’archivio –
adesso sta davanti al vuoto della nicchia –
sempre più tenue, pallida, ormai quasi smorzata.
«Voglio averti di fronte, dobbiamo misurarci!»
E temeraria infila la sua via,
come un’anguilla, per strettoie scure.
Qui rischia di scontrarsi, là il vestito si uncina,
cammina piano piano (hanno i fantasmi
acutissimi sensi), perché l’altra non sfugga.
Che coraggio, davvero non si può contestarlo!
Una cornice buia, la porta dell’archivio.
«Chiusa a chiave, sbarrata!» Resta fuori,
ed esitando prima l’occhio s’accosta
alla fessura, poi all’orecchio.
Tutto nero all’interno, ma un fruscio
di pergamene le sembra di sentire,
e come uno strisciare alla parete.
Il cuore le galoppa soffocando,
tiene il respiro, ascolta, si protende:
cos’è quel lume che le nasce accanto?
Il chiaro di una lucciola: cresce, s’alza su,
e braccio contro braccio, appena a un passo,
il fantasma s’appoggia alla porta,
chino sulla fessura come lei.
Arretra: anche l’immagine;
poi s’avanza: anche quella.
Adesso son di fronte, occhi negli occhi,
si sfidano con forza vampiresca.
Copron le chiome due cuffiette eguali,
e lini eguali avvolgono le membra,
come neve fioccante, egualmente scomposti.
Allunga ora la destra, lentamente,
la signorina; e lenta, quasi dentro uno specchio,
le viene incontro, nitida e precisa,
la stessa mano con lo stesso rubino.
Si muove: e sente, quella viva,
come se un’aria la tocchi tagliente.
Il fantasma vacilla, si dissolve, dilegua.
Quando vola la danza nel salone,
una giovane vedi, bella e inquieta
(ebbe una lunga malattia, in passato),
che tiene sempre la mano nel guanto.
Si dice sia come una lama di ghiaccio.
Eppure è gaia, la fanciulla, tutti,
si sa, la chiamano «la matta Rodenschild».
(traduzione di Giorgio Cusatelli, Rizzoli Editore, 1988)